giovedì 3 marzo 2011

Lykke Li | Wounded Rhymes

Di sicuro ora va in giro con capi neo-gothic della Demeulemeester e citando Edgar Allan Poe ad ogni rutto. E’ maturata dai tempi delle ballate naive di Youth Novels, Lykke Li. O almeno questo racconta a chi le chiede se è maturata dai tempi delle ballate naive di Youth Novels. Ovvie verità insomma. Si descrive più noir e introspettiva, si confessa più consapevole e cosciente.

Wounded Rhymes è un album che ha il sapore della Scandinavia, è recitato da una Scandinava, è prodotto da uno Scandinavo, ma è registrato a Los Angeles, dove la giovane Li ha pedinato le ombre di Joni Mitchell e Neil Young, ha atteso invano un fortuito incontro con David Lynch e ha trascorso pomeriggi visionari e grotteschi guardando il film cult di Jodorowsky, The Holy Montain.
Ora anche la svedese dei nostri cuori, non Robyn, l’altra, ha il suo bel LP dove mostrarsi incazzata e cupa, e di certo non stiamo qui a darle torto, inibiti come siamo dalle inquietanti percussioni di Bjorn Yttling, il produttore; quello di mezzo dei Peter, Bjorn & John; quelli di Young Folks, loro.
Naturalmente Lykke Li potrà anche elencare tutte le più alte ispirazioni alle quali ha tenuto fede per questo suo secondo lavoro, ma il nostro orecchio lo percepisce in assoluto come l’album post-Salem, post- witch wave in cui il synth-rumorismo della band del Michigan è stato sostituito da un’overdose in drum machine, a tal punto che nel brano di chiusura Sylent My Song, il ridondare della parola “sylent” quasi suggerisce un accostamente fonico con la parola “Salem”. Roba da maniaci dell’occulto.
Psichedelismo noir e atmosfere da conifere lapponi infestate da troll e renne o altri esseri immaginari, momenti di compenetrazione naturalistica e nostalgie random.
Un clima così nordico da essere quasi polare, come se in Love Out Of Lust Lykke cantasse seguita dall’eco prodotto nella cupola di un igloo o come se I Follow Rivers fosse accompagnata da uno xilofono composto da stalattiti di ghiaccio.
Quella giusta dose di minimalismo da straccioni intellettuali e la fermezza di poter seguire lungo tutta la tracklist un unico filo conduttore, che leviga ogni singolo brano e lo modella come un anello di una catena più lunga. Poche le concessioni al di fuori del registro comune, Bjorn mette a stecchetto la svedese e al massimo le concede un accenno di blues sincopato, Get Some, o in apertura, You Knows No Pain, le offre di giocare con una tastiera che ci ricorda un po’ lo psychedelic rock degli Iron Butterfly e la solenne In A Gadda Da Vida (il brano che Bart Simpson fà cantare in chiesa ai cittadini di Springfield facendo collassare la vetusta suonatrice di organo, nell’episodio “Bart vende la sua anima”, per intenderci).
Se al termine dell’ultimo brano vi sarete tramutati in omaccioni con la barba bionda, sudorazione eccessiva e il maglione con fiocchi di neve ricamati, sarà perché Lykke vi avrà davvero travolto.

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