domenica 13 febbraio 2011

Le Storie Della Fantasia #1

Leonora Fortunati © 
Inauguriamo oggi una nuova rubrica, sperando di potervi aiutare a trascorrere nel migliore dei modi la domenica. Tutti i racconti che leggerete sono scritti da Natalia La Terza. Di seguito, il primo.


Un costume intero a quadretti verdi

Quella mattina, presi dall’armadio di legno della roulotte il mio costume preferito: era quello intero a quadretti verdi. Zia Elda me l’aveva regalato dopo grandi passeggiate al Corso e piccole impronte sula vetrina di Miramare. Le mie.
Ricordo bene l’ultima volta che i suoi tacchi solleticarono il pavimento del negozio di quella signora grassottella. Pensavo che la visita si sarebbe svolta come gli altri sabato pomeriggio insegnavano con poca fantasia: le due signore si sarebbero messe a chiacchierare dei figli sposati e delle figlie zitelle, delle nipoti fidanzate e dei nipoti libertini, dei loro primi piatti e delle loro ultime parole famose. Ma poi, qualcosa nell’aria, tirò a sè le ciglia nere e sottili della zia, che non potè far altro che osservare quella stampella di plastica trasparente accanto al bonsai dai capelli bianchi. Presa in contropiede, guardai immediatamente di fronte a me, fingendo disinteresse. Il primo cassetto del bancone era bucato, e un topolino all’interno mi fece segno di star zitta.
Ricordo, che quando raggiungemmo il marciapiede affollato, zia Elda disse, nel suo impeccabile cardigan blu, che quello era il premio per la mia pagella coi fiocchi.
La signorina Tartaglia aveva scritto, con mano insicura, “ottimo” sotto l’imponente riquadro intitolato Matematica, e a casa mi chiesero se si potesse ormai togliere la tabellina del cinque appesa nei pochi centimetri di muro che separavano il corridoio dalla mia stanza. Alla fine del quadrimestre la mia camera era diventata un museo d’abachi.
Accanto alla finestra avevo l’abaco futurista, dove minuscoli signori con bombetta e bastone prendevano il posto delle classiche palline; sul comodino quello neoclassico, scolpito con precisione dal mite artigiano sotto casa, in nome della nobile semplicità e della quieta grandezza; sulla poltrona a fiori, poggiato sopra un cuscino, invece, c’era il mio preferito: era l’abaco romantico. Collegato al grammofono grazie a un trucco di Minoli, l’elettricista, a ogni calcolo esatto faceva partire una vecchia canzone d’amore. Capirete che patteggiai con Minoli, e non era certo raro trovarmi a cantare e ballare in calzini rossi, sul tappeto, Io che amo solo te con una certa comprensione.
Patteggiai, sì. Quell’”ottimo” dell’ultimo decisivo compito era uno sporco imbroglio, frutto di una dolcissima corruzione: una caramella per ogni esercizio a Pietro, seduto sulla metà della sedia del banco davanti al mio.
Ma Luglio arrivò anche per chi non sapeva contare, e nel fare il mio borsone, misi il costume verde per ultimo, senza chiudere la zip, così da poterlo osservare accanto a me lungo il tragitto, fischiettando sul sedile posteriore.
La mattina che indossai il costume sarebbe arrivato in campeggio Enrico: non ci vedevamo da un anno.
Insieme avevamo vissuto momenti di un certo spessore per la vita di una bambina, ad esempio, avevamo imparato ad andare in bicicletta senza ruotine.
Presi proprio la versione alleggerita della mia due ruote per raggiungere la piscina sotto il sole un po’ arruffato. Salita in sella, pensai al tragitto da percorrere: dieci pedalate fino al salice piangente, ventiquattro fino al melo e due soltanto lungo la discesa che portava al cipresso. In caso di tentennamenti, pedalare all’indietro fino al pino. Arrivata al cortile che circondava la piscina, posai la bici vicino alle altre, accanto al vecchio scivolo, dove la poggiavamo anche con Enrico. Un bimbo dagli occhiali tondi mi stava a guardare, e decisi di dargli una caramella, sfilandomela dalla tasca dei pantaloncini a pois. Forse era il nuovo posteggiatore. Entrando, misi il cappello con la visiera dentro lo zaino passeggiando lungo lo steccato dipinto arcobaleno, e sfilai pantaloncini e maglietta accanto all’ombrellone del dottor Scaltri, sempre pronto con lo stetoscopio al collo. Mi avvicinai piano al bordo della piscina, cercando di distinguere il suo viso chiaro in quell’esplosione di ciambelle, braccioli, occhiali da sole e farfalle viaggiatrici in foulard intorno a me. Dondolai i piedi nell’acqua della vasca, controllando che nello zaino ci fossero i miei occhialini ancora appannati.
Negli ultimi dodici mesi avevo pensato tanto a Enrico. Ad Agosto finii di leggere per la scuola Il barone rampante, che, giorni prima, sdraiati tra gli aironi al lago di Poggio Perotto, mi aveva rivelato essere il suo libro preferito; a Settembre nell’uscita domenicale con gli scout, trovai, alla fine di un cammino, dei giacinti profumati come quelli che aveva infilato nel cestino di vimini della mia bici il giorno che mi ero sbucciata entrambe le ginocchia. A Ottobre strinsi amicizia con un bambino del mio condominio solo perchè indossava la sua stessa maglietta, e per lo stesso motivo decisi di non vederlo più a Novembre, passeggiando per le scale quando lui prendeva l’ascensore. A Dicembre non scrivevo lettere a un uomo barbuto, ma a un ragazzino dalle ciglia rade; il mese dopo, in alto a destra, sulla pagina del quaderno d’italiano, scrissi Genrico invece che Gennaio. A Febbraio, con i soldi della paghetta comprai un rimario per comporre poesie col suo nome, e non era certo stato un buon investimento; tanto che a Marzo proposi un baratto alla libraia Anna, in cambio dei racconti di Roald Dahl. Con i primi d’Aprile decisi di imparare a suonare il pianoforte, anche con un discreto successo. A Giugno però, sulle note dei minuetti di Bach mi accorsi che ci sarebbero stati un po’ di problemi, nel trasportare in Toscana un pianoforte a coda.
E Enrico? Pensavo - osservando la fila di formiche con le borse della spesa salire e scendere il ponte sul cloro del mio indice - Chissà se Enrico mi avrà pensata, temperando le matite colorate nell’angolo della classe, in piedi davanti al cestino; piegando precisi i tovaglioli sulla tavola da pranzo; o allacciandosi le scarpe la mattina, seduto sul letto.
“Cinque volte al giorno!” sussurrò all’improvviso una piccola voce accanto alla mia treccia, facendo ammorbidire l’elastico.
Cinque volte al giorno. Trecentosessantacinque giorni. I quadretti verdi sul costume si fecero più tesi, a braccetto col mio respiro. Questo voleva dire che, moltiplicando cinque per cinque e mettendo sul ciuffo del sei un due...
Piccole mani infilarono sulla mia testa gli occhialini.
Erano ancora tutti appannati, ma seguendo con attenzione gli scorci trasparenti potevi intravedere risplendere un 1825.

- Natalia

1 commento:

  1. Delicato come in un sogno ad occhi aperti. Buona fortuna.

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