Quella che Gianni Rodari introdusse a partire dagli anni 50 fu una vera e propria rivoluzione.
Il suo metodo era semplice, ma di difficile applicazione in un paese serioso (non serio) come il nostro: il gioco come modalità principe di apprendimento e di sperimentazione, di autoformazione, di crescita.
Ed infatti della sua esperienza come direttore del Pioniere negli anni 50, lo stesso Rodari parla in questi termini: «crudelmente snobbato e praticamente cacciato» per via delle sue «canzonette poco divertenti, poco progressive, poco tutto».
Per intenderci sul clima di quel periodo, basta pensare che Nilde Iotti dava additava come causa della corruzione e della delinquenza giovanile i fumetti e lo stesso Togliatti affermava «Non metteremo in fumetti la storia del nostro partito o della rivoluzione».
Le cose vanno un po' meglio nella decade successiva con Einaudi, ma i suoi lavori stentano lo stesso a togliersi di dosso l'etichetta decisamente troppo stretta di "cosa simpatica, divertente, ma decisamente minore, quasi marginale".
«Nemo propheta in patria alicata», è proprio vero, eppure il «metodo Rodari», cioè la capacità di smontare e rimontare meccanismi non solo verbali per capire come sono fatti, è più necessario che mai, in tempi di omologazione, pressappochismo, appiattimento sulle immagini.
«Per colpa d'un accento / un tale di Santhià / credeva d'essere alla meta / ed era solo a metà»
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